A cura della psicologa psicoterapeuta Francesca Cervati
Il periodo che in Italia va’ dagli inizi del 1900 fino al 1978 presenta una sorta di “buco normativo” per quanto riguarda la legislazione della salute mentale in Italia.
È infatti il 1904 quando viene emanata la legge unitaria, redatta con l’aiuto dei più importanti medici psichiatri italiani: il suo scopo era principalmente quello di normatizzare e regolamentare gli accessi agli ospedali adibiti e ai manicomi.
Ad esempio, stabiliva che ad esser custodite (e curate) in manicomio dovessero essere solamente quelle persone che risultavano pericolose per loro stesse e per gli altri; regolava anche (negli articoli due e tre) gli accessi e le dimissioni dalle strutture, che ora potevano essere autorizzati solamente da un tribunale.
La visione del mondo scientifico
In questo periodo non si può ancora parlare del lavoro di una psicologa o di psicoterapia individuale, poiché siamo agli albori di questo universo: la nascita della psicanalisi viene infatti datata 1895, con l’interpretazione di un suo sogno da parte di Sigmund Freud, mentre quella della psicologia scientifica è invece attribuita a Wilhem Wundt (1879).
Tuttavia, la situazione politica dell’epoca non favoriva sicuramente la diffusione di queste teorie.
Ad occuparsi dell’argomento “salute mentale” erano dunque medici e psichiatri, che studiavano e creavano le loro teorie all’interno della cultura positivista, quella maggiormente diffusa all’epoca: Cesare Lombroso, ad esempio, formulò la teoria dell’atavismo, la quale stabiliva che “di fronte a comportamenti inaccettabili, la causa fosse da ricercare negli avi dei soggetti, risalendo nel passato”.
Creò anche la figura del delinquente nato, sostenendo che già dai tratti fisiologici era possibile riscontrare e stabilire per il soggetto un futuro destinato alla delinquenza (Antropologia criminale).
Un altro importante medico che si occupò della questione fu Nicola Pende, il quale creò il profilo biotipologico tramite il quale era possibile catalogare in diverse tipologie gli individui. Purtroppo, queste ricerche furono poi messe al servizio della politica e del fascismo.
Insomma, l’attenzione era rivolta soprattutto alla questione biologica, poiché la convinzione era che la causa della malattia mentale fosse dovuta unicamente alla genetica delle persone.
Il costituzionalismo
Come dicevo prima, non il mondo psicologico ma quello medico si occupava della questione relativa alla salute mentale: il costituzionalismo sosteneva che la causa della malattia non fosse tanto da ricercare in un agente patogeno esterno, ma nella costituzione individuale.
In sostanza, la domanda che si ponevano gli esperti era: come mai si ammala un individuo piuttosto che un altro?
Il paziente
In questo periodo i malati psichiatrici erano non solamente considerati cittadini di serie b, ma letteralmente “non esseri umani”, almeno non per quelli che noi consideriamo essere i diritti basilari dovuti ad ogni essere vivente.
I diversi documenti dell’epoca mostrano infatti un panorama europeo a dir poco agghiacciante: le proposte che si possono trovare vanno dall’eliminazione (opzione sempre contrastata dai medici italiani, fortunatamente), alla castrazione chimica, la reclusione o l’abbandono su isole deserte (si, davvero!).
Bisognerà attendere ancora molti anni, prima che i pazienti psichiatrici vengano riconosciuti non solamente come soggetti pericolosi ma come malati da curare, ma soprattutto come persone.
Impoverimento culturale e primi rapporti col mondo psicologico
All’interno di questa situazione culturale, già molti psichiatri lamentavano, dopo la legge unitaria del 1904, di essere ridotti più a carcerieri che a medici.
Infatti, sebbene la legge stabilisse quali persone dovevano essere curate, non stabiliva un “come”, lasciando libertà quasi totale alle modalità di terapia.
La difficile situazione geopolitica negli anni antecedenti alla Prima guerra mondiale, inoltre, non permetteva i normali scambi di idee e teorie che da sempre favoriscono lo sviluppo scientifico.
Fu l’opera pionieristica di alcuni medici psichiatri a portare in Italia il mondo della psicanalisi, in grado di offrire una visione alternativa: nel 1908, sulla rivista italiana di freniatria (una pseudoscienza che cercava di catalogare i soggetti in base a dimensione e forma del cranio), viene pubblicato il primo saggio che parla di psicanalisi e psichiatria, ad opera di Gustavo Modena.
Egli ed altri medici, come Edoardo Weiss, iniziarono a sperimentare l’utilizzo delle tecniche freudiane all’interno dei manicomi italiani, anche se ovviamente si trattava di iniziative personali, poiché risultava difficile diffondere questo tipo di sapere, che sarebbe stato poi ulteriormente ostacolato dall’avvento del fascismo.
Infatti, con l’aumento del controllo sulla devianza e sugli emarginati, con la reclusione nei manicomi anche di oppositori politici o di soggetti “inadatti”, di donne o bambini, si assiste ad un generale impoverimento della cultura riguardo la salute mentale delle persone.